Seguici sui nostri social | Contattaci

Ma perché devo spegnere?

 

Negoziazioni quotidiane con figli digitali

di Alessandra Di Minno

Più o meno ogni giorno mi trovo con il mio figlio maschio, undicenne avanzato, a discutere sul momento in cui deve spegnere quegli “infernali” dispositivi elettronici. La domanda è sempre e comunque: “Ma perché?”, oltre ai tentativi più o meno raffinati di contrattazione sul procrastinare lo spegnimento.


In genere la mia risposta è che gli si sciolgono i neuroni e gliene resta una manciatina per le funzioni vitali. Funziona… pur con la pazienza, mia, per quei tempi di latenza, suoi, che gli servono per arrivare a spegnere effettivamente.
Funziona perché ho ormai provato innumerevoli volte che la contrapposizione serve poco e dura poco, mentre parlare gentilmente, scherzare e trovare buone mediazioni rende assai di più.

Ma resta lì la domanda, centrale per lui evidentemente: perché?

La faccenda dei neuroni è solo una deflessione per non scivolare in quel muro contro muro di cui sopra. In realtà, in quelle sue attività virtuali, circuiti vari di neuroni sono più che attivi e si rinforzano con la pratica, espandendo parti del suo cervello. Non deperiscono, si sviluppano.
Eppure io so che ha senso dare limiti a quel tempo virtuale.

È arrivato il momento di rispondere.
Il problema non è abbattere il virtuale o la tecnica, posto che sarebbe un’impresa fallimentare in partenza. E anche un peccato, visto quello che ci permette. Semmai la questione, dal mio punto di vista, è proteggere l’incarnato. L’incontro incarnato con il mondo, le persone, gli ambienti.
Occorre dedicare il giusto tempo a essere presenti e in contatto senza mediazioni (i media, per l’appunto) ma attraverso la propria esperienza corporea. Con i sensi aperti.

Sappiamo tutti che differenza c’è tra inviare l’emoticon di un abbraccio con whatsapp e darsi un abbraccio reale. Anche un undicenne lo capisce bene come esempio.
La pelle vibra, recepisce sensazioni che comunicano direttamente con tutto il nostro sistema, attiva la produzione di ormoni come l’ossitocina, una sostanza che contribuisce in modo significativo al nostro benessere; il benessere/piacere che proviamo dà messaggi chiari alla centrale operativa (il nostro cervello) che va tutto bene e stiamo vivendo un contatto relazionale buono.

Il corpo che siamo (sì, noi siamo corpo) chiede di essere nutrito di esperienze corporee per mantenere vitalità, flessibilità, apertura. Esperienze corporee anche piccole, quotidiane, semplici.
Lo sguardo sullo schermo, sicuramente attento e vigile, è un’esperienza molto diversa dallo sguardo negli occhi di qualcun altro, in carne come noi.
Se mio figlio distoglie lo sguardo dallo schermo può raccontarmi qualcosa o io raccontargli qualcosa guardandoci negli occhi e nutrendoci di questa micro-esperienza che oggi più che mai deve riacquistare il valore immenso che ha.
Se tra un po’, quando arriverà per esempio una fidanzata, non avrà imparato a guardare bene negli occhi e a stare bene in quell’esperienza, non avrà buone basi per stare in relazione.

Si impara facendolo, a guardare negli occhi, si perde non facendolo.

E ancora, sempre in materia di sguardo.
Quando siamo nel virtuale il nostro sguardo interno è quasi totalmente catturato da questo potentissimo competitor: siamo pressoché totalmente protesi in avanti e distogliamo il contatto con noi stessi. Quando siamo nel reale (per facilità distinguo tra virtuale e reale, pur consapevole che si tratta di una dicotomia troppo semplificativa) è più facile che il nostro sguardo interno si sposti verso il dentro o quanto meno su quel confine tra dentro e fuori. Possiamo tornare in contatto con noi, con ciò che pensiamo, sentiamo, vogliamo.

E solo così possiamo scegliere. Scegliere cosa fare, cosa dire, cosa mettere, cosa togliere.

Se i nostri ragazzi non esercitano il contatto con se stessi e non imparano il linguaggio del proprio mondo interno difficilmente sapranno nella vita cosa scegliere. E il contatto con sé non può che avvenire stando pienamente nel proprio corpo e nello spazio/tempo del presente perché è lì e solo lì che impariamo e pratichiamo la consapevolezza.

La consapevolezza richiede attenzione e quando l’attenzione è dentro un mondo altro, in cui lo spazio/tempo è del tutto sfasato rispetto al reale, noi ci perdiamo un bel po’.

Certo, occorre dire che l’effetto “anestetizzante” rispetto a sé e alle proprie emozioni è proprio uno dei motivi per cui si tende a rifugiarsi nel virtuale, ma il prezzo che paghiamo è altissimo: noi avremo da stare con noi stessi tutta la vita e se i nostri piccoli non imparano a starci sufficientemente bene saranno in difficoltà.
I ragazzi capiscono queste cose se diamo loro occasione di parlarne con la calma del confronto e il linguaggio che li raggiunge. Il fatto che lo capiscano, tuttavia, non significa nulla di troppo promettente.

Io ogni giorno mi ritrovo lì, comunque, a contrattare il confine tra il virtuale e il reale, a riprendere il perché, che va ripetuto perché entri piano piano, attraverso una via carsica.
I ragazzi capiscono a condizione che ciò che diciamo lo rendiamo esperienza, lo incarniamo, gli diamo un senso e non lo imponiamo o pretendiamo soltanto.
Diversamente, quel che otteniamo è una tregua di facciata e, dietro l’angolo, tutto riprende come se niente fosse, incastrandoci in una lotta sena fine e tendenzialmente snervante.

Eppure io credo davvero che se offriamo noi per primi esperienze di contatto nutrienti e per primi espandiamo il nostro essere corpo, abitandoci con consapevolezza, tutto passa e arriva anche ai piccoli, come un contagio buono.

Condividi l'articolo su

Conosci e ricevi in anteprima novità e aggiornamenti

Iscriviti alla newsletter