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Diventiamo diffusivi e non virali

 

Per contribuire alla diffondibilità consapevole

di Alessandra Callegari

Qualche anno fa è uscito Spreadable media. I media tra condivisione, circolazione e partecipazione, scritto da Henry Jenkins, Sam Ford e Joshua Green: la “diffondibilità” (spreadability) come attributo del panorama dei media contemporanei, con la potenzialità di ridefinire drasticamente il funzionamento delle istituzioni culturali e politiche.

Gli autori ci invitano a riflettere sul concetto di condivisione e sulla responsabilità che comporta: quando condividiamo – e quindi contribuiamo a diffondere un contenuto (testo, immagine, video) – ci interroghiamo su quanto vale la pena farlo? E, prima ancora, su quanto sia “attendibile”, o “vero”, o “giusto” (o… tutto quello che per noi è valoriale) tale contenuto? In altre parole, quanto siamo consapevoli di ciò che facciamo? Di qual è il nostro target? Del contesto in cui ci inseriamo? Della piattaforma che scegliamo di utilizzare? Del messaggio che vogliamo trasmettere?

Essere presenti – e “attivi” – nei social media comporta tutta una serie di dinamiche: ce ne rendiamo conto? O siamo mossi dalla convinzione che un contenuto digitale diventi magicamente “virale”… senza implicazioni da parte nostra? In tempi di coronavirus, queste riflessioni diventano tanto più necessarie e significative. Lo vediamo ogni giorno, bombardati come siamo da notizie che impattano profondamente su di noi, volenti o nolenti.

E infatti, qualche giorno fa parlavamo tra colleghi (tutti counselor) degli effetti secondo noi devastanti che un certo tipo di condivisione “virale” ha avuto nella situazione attuale, devastanti perché ha aggiunto allarmi ingiustificati alle ragionevoli misure di sicurezza, in un improvviso quanto improvvido emergere di uno stuolo di presunti (e presuntuosi) esperti virologi ed epidemiologi.

Ci siamo ritrovati d’accordo sulla necessità di mettere al servizio degli altri le nostre competenze professionali: quelle legate alla capacità di ascolto, al rispetto delle posizioni altrui, alla gestione delle emozioni, alla facilitazione di relazioni… insomma a tutto quello che qualifica e caratterizza il nostro mestiere, improntato appunto alla relazione. Diventiamo virali, si è detto, nel senso di condividere in maniera allargata questa nostra visione e questo nostro modo di essere e di stare, per contribuire a creare un clima di maggiore tolleranza, rispetto, accettazione, altruismo, resilienza.

Ma la parola virale rischia – tanto più oggi – di essere caricata di significati e sfumature che non portano nella direzione auspicata. Se vogliamo diffondere buoni contenuti in vista di buoni risultati, dobbiamo diventare diffusivi e non virali. Ovvero contribuire alla diffondibilità consapevole: per diffondere con responsabilità, a cominciare proprio da ciò che comunichiamo sui social in situazioni di emergenza come quella in cui ci troviamo. Verificando notizie, scegliendo con cura quelle da condividere, indicando possibili alternative, invitando a riflessioni critiche, portando testimonianze dirette, aiutando a fare chiarezza e a dipanare confusione, alimentando buon senso.

Diventiamo diffusivi e non virali quando non ci limitiamo a fare clic sul pulsante “condividi”, ma mettiamo scientemente un pezzetto di noi e della nostra verità in ogni nostra comunicazione e diamo un valore politico e sociale a tutto ciò che facciamo e diciamo in pubblico.

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