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Atto unico e improvvisazione

Counseling e autneticità, sule orme di Yalom

di Paola Brandolini
Allieva del Corso triennale di Formazione in Counseling Professionale di Collage Counseling

Atto unico e improvvisazione. Queste sono le espressioni e le immagini che mi ha suscitato la lettura del testo di Irvin Yalom Il dono della terapia (una delle letture richieste all’interno del corso triennale di formazione in counseling che sto seguendo) e soprattutto la sua visione e il suo vissuto di relazione terapeutica.


Yalom è uno psicoterapeuta statunitense con un approccio esistenzialista, scrittore di numerosi libri, saggi e romanzi e docente a Stanford. E seppure sia uno psicoterapeuta, il suo testo di fatto racconta di un “modo di essere” che ben si adatta anche alla relazione counselor-cliente e per questo ci viene chiesto di leggerlo. La relazione terapeutica descritta da Yalom mi appare come un’esperienza che si snoda nel tempo attraverso tanti atti unici, come quelli teatrali: ciò che viene messo in scena in quella stanza (spazio) e in quell’ora (tempo) è il risultato dell’incontro unico e irripetibile tra l’esistenza del professionista e quella del cliente. Una rappresentazione scenica unica e irripetibile che si nutre di emozioni e pensieri, che nascono nel qui e ora prodotto da quell’incontro.

Le indicazioni per gestire la relazione che Yalom ci offre sono una cornice teorica e metodologica necessaria al professionista che vuole aiutare, ma che trova la sua efficacia piena solo nella messa in gioco, ogni volta unica, dell’umanità autentica di cliente e counselor. Counselor che, nella necessaria attenzione al ruolo, può parlare di sé, del proprio sentire del momento, delle proprie esperienze di vita, della modalità con cui in quel “qui e ora” risolve un eventuale fastidio o, perché no, un personale rischio di atteggiamento disfunzionale.

E quel che avviene, in virtù anche dell’autenticità stimolata a esistere in ogni momento, proprio in quel momento, è unico. Un unico che inevitabilmente fertilizza tanto o poco il momento successivo, ma come l’esperienza di ogni produzione teatrale per un attore costruisce la sua competenza, la sua conoscenza nel tempo, la sua storia di Attore, così questi atti unici che sono i singoli incontri costruiscono la consapevolezza, la competenza su di sé, la conoscenza del cliente (e anche del counselor).

Improvvisazione.
Tecniche, deontologia, strumenti di lavoro e di relazione, conoscenze metodologiche sono il sapere usato per il fare che è un mettere in scena senza copione, senza sceneggiatura, con l’improvvisazione che nasce dalla evocazione di un materiale umano che sorge ogni volta inevitabilmente nuovo (seppur in una cornice generale nota al counselor e in parte, ora più ora meno, anche al cliente). Non potrebbe essere altrimenti quando alcune delle parole d’ordine, o meglio, delle condizioni e dei fenomeni il cui accadimento si promuove sono “autenticità del counselor”, “trasparenza” del sentire, “universalità” delle esperienze e dei sentimenti, “valore delle proprie esperienze personali”. Nulla di tutto ciò può essere detto ed espresso come da copione. Si improvvisa e si crea da parte del counselor, con il senso di responsabilità e di attenzione per l’utilità che ne può derivare al cliente.

Ho fatto esperienza anche nel mio lavoro di formatrice del valore dell’autenticità, della trasparenza e dell’universalità del sentire come strumenti di aiuto per facilitare processi di cambiamento e anche per gestire momenti di difficoltà emotiva vissuti da parte mia in aula.

Talora incontro, con alcune tipologie di lavoratori in particolare, forti resistenze al cambiamento; e soprattutto la difficoltà, da parte di qualche partecipante ai corsi, di riconoscere le proprie risorse e di cogliere la possibilità di costruire un personale benessere sul lavoro, perché ritenuto impossibile a causa dei grandi e invincibili nemici esterni: solitamente il datore di lavoro, la società, il governo, il capitalismo, i Borg, l’Impero e altre soggettività varie.

A volte, di fronte all’atteggiamento autodistruttivo o fortemente disfattista di qualcuno, evidentemente risultato non solo di un personale modo di stare al mondo ma anche di esperienze di vita lavorativa frustranti e annichilenti, io mi svelo. Svelo, a mia volta, un sentire di frustrazione e disagio personale a stare in quella che percepisco come una difficoltà a svolgere con efficacia il mio lavoro, svelo la mia fatica e il mio dispiacere a stare di fronte a quella che sento come una rinuncia da parte di miei simili, come una cessione del potere e del controllo a chi non solo li ha svalorizzati nel tempo (come è nel loro sentire a me espresso), ma che forse godrà ora anche del fatto che i soldi investiti (per obbligo) in quella formazione, dai contenuti persino sovversivi rispetto a certi ordinamenti aziendali, non verranno usati dai lavoratori per proteggersi, per stare meglio, per reagire alle cattive culture aziendali.

E allora, di fronte allo svelamento della mia umanità, del mio sentire, quando talora addirittura dico “che fatica faccio io con voi e il vostro vissuto lavorativo, che mi insegna tanto e che tanto mette alla prova la fiducia nel mio lavoro” e so, perché lo sento nel corpo, che la mia voce e i miei occhi, per chi mi guarda dalle prime file, esprimono commozione, per loro e con loro e per noi, allora, nel silenzio che si crea, con tutti gli sguardi puntati su di me, anche di chi tanto attento prima non stava, si attiva un circolo di umanità, una energia di vicinanza e di alleanza al di là dei ruoli.

Quando do senso al mio lavoro anche con il sentire e con il corpo che sente, diventiamo anche noi (come il counselor e il cliente) compagni di strada per quelle poche ore (perché è situazione ovviamente ben diversa da una relazione di auto). La condivisione del mio sentire, delle mie esperienze personali, dello sconforto di quel momento, della comprensione empatica della loro fatica fa dire a qualcuno, a volte anche a quelli riottosi e ostili, esplicitamente o in modo indiretto: “Ci sentiamo capiti”, “Sei con noi”, “Se tu ti fidi al punto da condividere con noi tutto ciò, forse potremmo fidarci anche noi di noi stessi per questa cosa, e dei nostri colleghi?”.

Sono momenti bellissimi.
Sono momenti in cui comprendo che il mio sapere e la mia competenza tecnica sono depotenziati senza la disponibilità da parte mia a “creare” nel qui e ora, sulla base dell’incontro tra la mia e la loro umanità, a sentire e mettere in comune anche dei pezzi della mia vita e usare tutto ciò a servizio di quel momento unico che è ogni aula di formazione con adulti.

 

 

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