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I gruppi nell’era digitale

Da online a onlife

Riflessioni tratte dal webinar di GROUPABILITY® con Michele MARANGI, media educator e formatore che fa parte della Team del Corso di Alta Formazione “Nuovi saperi e nuove competenze per la gestione dei gruppi nell’era contemporanea”.

Il filosofo Luciano Floridi nel 2014 ha coniato la parola ONLIFE. Che cosa significa? È un cambiamento irreversibile? E che cosa comporta per la nostra umanità?

Con il concetto di ONLIFE Floridi ci dice che è finita l’epoca in cui ciò che facciamo online è distinto in modo netto da quello che facciamo offline; e non semplicemente perché siamo sempre collegati, ma perché la realtà fisica oggi è sempre, e in modo imprescindibile, connessa alla realtà digitale. Che si tratti di questioni di enorme portata come la guerra in Ucraina o del semplice schiaffo di Will Smith agli Oscar, siamo in flusso continuo tra reale e virtuale.

Il passaggio all’ONLIFE, dunque, è già avvenuto. Ed è reversibile nella misura in cui possiamo scegliere, a volte, di uscire dai flussi. Non perché andiamo su un monte sperduto in cui non c’è campo, ma per la voglia di sperimentare insieme altre modalità di conversazione, di ricerca, di azioni. Non generalizziamo, però: ognuno di noi ha sempre la possibilità di abitare questa realtà scegliendo il modo in cui farlo. Essere in osmosi continua tra realtà fisica e realtà digitale non è di per sé, quindi, né una bella né una brutta cosa: dipende dai contesti.

E che cosa accade alla gruppalità nell’ONLIFE?

Ricordiamoci che il digitale, ancor prima di essere una tecnologia, è un’economia. L’obiettivo primario del digitale è guadagnare miliardi. E, come ben sappiamo, per guadagnare miliardi vale tutto, anche fare in modo che ciascuno di noi sviluppi di continuo delle ansie, che sono un motore straordinario per l’economia. È scientificamente provato: i migliori algoritmi sono quelli che non ci fanno staccare mai, creando continue distrazioni dalle cose che contano.

Tik Tok, per esempio, è un social fondamentale per capire l’evoluzione che è in corso. Ha declassato Instagram nel giro di pochissimo tempo. È un algoritmo gelosamente custodito, che fa restare per 40 minuti incollati al video senza sapere bene perché. Ma è anche uno dei luoghi più inquinato dalle fake news.

Ed è interessante anche per il gioco delle semantiche: chi usa i social pensa, come suggerisce il nome, di essere immerso nella dimensione sociale e gruppale. In realtà spesso nei social siamo vittime dell’ossessione di essere all’altezza delle aspettative, di dire sempre cose interessanti, di far vedere luoghi particolari, di mostrare cibi sensazionali… Potremmo dire che questa è l’antitesi del gruppo: ognuno racconta se stesso per mettere in luce solo se stesso, senza preoccuparsi di ascoltare che cosa gli altri hanno veramente da dire.

Ma provare a ricodificare gli spazi digitali con le logiche del gruppo è molto interessante. Henry Jenkins, saggista statunitense che si occupa di media e comunicazione e in particolare di culture partecipative e di intelligenze collettive, ha scritto un libro fondamentale, “Cultura convergente”. Prima ancora dell’avvento degli smartphone e dei social dice che è impossibile non andare in convergenza continua: i codici, le piattaforme, le dinamiche di produzione di senso devono essere tutte convergenti e intrecciate perché altrimenti ci si perde nelle trame intricate della rete. Da soli siamo solo prede.

In Groupability® abbiamo fatto la scelta di lavorare in modalità blended, proprio per valorizzare le potenzialità di entrambi gli ambienti, quello virtuale e quello in presenza. Ma una differenza sostanziale tra reale e virtuale è la presenza o meno del corpo. In presenza possiamo toccarci, avvicinarci, allontanarci, possiamo trarre informazioni dal linguaggio corporeo, che ne contiene ben più del mero linguaggio verbale. Nello schermo ci vediamo semplicemente con il volto, con la mimica facciale. Stiamo perdendo qualcosa? E come, eventualmente, possiamo sopperire a questa perdita?

In termini di gruppalità si apre una bella scommessa: possiamo abitare il digitale non soltanto in modo funzionalista, ovvero per risparmiare tempo, ma in modo creativo e generativo. Il virtuale ci permette di incontrarci da posti diversi e in tempi diversi: restiamo parte del gruppo anche se non siamo tutti presenti contemporaneamente. Usando applicazioni come Padlet piuttosto che una piattaforma come Google Drive io sono parte del gruppo e do il mio contributo in un certo orario e altri in altri orari. È una logica del “qui e ora” che sta trasformando il concetto di spazio e di tempo.

La performatività, pertanto, non è forzatamente richiesta nelle due ore in cui ci troviamo in riunione, ma può essere messa a disposizione quando siamo realmente in grado di contribuire al meglio, da un altro posto e in un altro tempo.

Sempre il digitale ci aiuta, proprio grazie ai suoi limiti, a distinguere che cosa non ha senso forzare in quell’ambiente e ci dà modo di rivalorizzare la presenza fisica che, per certe attività ed esperienze, non può che essere l’ambiente giusto se non esclusivo. E sottolineo, tra l’altro, che presenza e distanza sono spesso nominate insieme, ma in realtà il contrario di presenza è assenza.

Durante la pandemia abbiamo acquisito preziosissime opzioni, che tempo fa sarebbero state impensabili, come la didattica a distanza. Ma è tipico dell’essere umano: una volta che c’è un nuovo adattamento lo diamo immediatamente per scontato. Quante volte ci capitava, prima dell’avvento di Internet, di essere lontanissimi da gente a un metro da noi e vicinissimi a gente lontana 8.000 km?

Ma l’idea non è solo di confrontare ciò che si può fare nella presenza fisica piuttosto che nel digitale, ma capire come sviluppare il meglio in ciascuno dei due ambienti. Si possono fare cose eccezionali anche a distanza, ci sono tante possibilità di utilizzo non solo interattivo, ma anche narrativo, creativo e performativo. Tanto quanto ciò che si può fare con i corpi, nei luoghi fisici condivisi, è specifico e forse unico.

Quel che io vedo che funziona sono gli assetti alternati: significa non sovraccaricare, dosare i tempi nell’una e nell’altra modalità, sentendo quando sono funzionali e quando vanno oltre. Di assetti variabili si parla anche nelle neuroscienze: occorre mantenere alcune posture, ad esempio lo scrivere a mano, perché aiuta tantissimo a tenere attive alcune capacità cerebrali che altrimenti rischieremmo di perdere.

In presenza noi entriamo in contatto con tutti i nostri sensi, sono i canali aperti che ci permettono di contattare l’ambiente. Nel digitale abbiamo gli occhi che guardano, le orecchie che ascoltano, ma il tatto non c’è. Che cosa sta cambiando nel nostro modo di percepire l’ambiente?

Il nostro cervello si sta adattando: nell’arco di trent’anni c’è stata un’accelerazione incredibile ma i tempi sono molto ridotti per parlare di un cambiamento cerebrale profondo.

La realtà virtuale usa uno schermo profondamente immersivo: ci si dimentica di avere un corpo nello spazio e nel tempo. Le percezioni e le sensazioni riflettono un’esperienza che è altro rispetto alla realtà fisica che si sta vivendo in quello stesso momento.

Qualcuno dice che nel prossimo futuro ci troveremo soprattutto in luoghi virtualizzati o nella realtà aumentata, dove cioè alcune parti ripropongono luoghi fisici reali. È da anni che si parla di realtà virtuale come la prossima rivoluzione, ma non riesce a sfondare perché è insostenibile a livello fisico. Non ha infatti attecchito nei videogiochi, perché il nostro sistema nervoso, dopo circa 20 minuti, fa già fatica.

Si diceva anche che il modo di narrare sarebbe cambiato, che sarebbe finito il cinema, per esempio. Ma non è così, perché nella realtà virtuale o aumentata manca la sceneggiatura, manca qualcuno che ci indichi che cosa vedere, facciamo troppa fatica a gestire questa potenzialità di per sé incredibile.

Il Metaverso di cui si parla tanto oggi è, in potenza, un luogo per incontrarsi giocando con gli avatar. Ma è emblematico che già si stia parlando di molestie anche in questo ambiente. E alcuni studi stanno dimostrando che le persone sono più aggressive o più violente e meno empatiche dietro uno schermo perché non si attivano i neuroni specchio. In quel contesto siamo segni, siamo simboli, non persone. Mentre dal vivo abbiamo un corpo, un odore, siamo insieme agli altri e abbiamo molte più inibizioni, non soltanto cerebrali, anche sociali e culturali.

Non si tratta, dunque, di andare dietro a situazioni tecnologicamente troppo complicate, ma di cogliere le potenzialità reali dell’ONLIFE per attivare, in tutti gli ambienti a disposizione, l’empatia e il contatto profondo. Se ci pensate, però, questa non è un’invenzione nuova: a tutti sarà capitato di piangere leggendo un libro. La tecnologia in questo caso è la carta, con dei segni che, tra l’altro, non significherebbero nulla se andassimo oltre confine. La chiave di volta, allora, sia nella realtà fisica sia nella realtà digitale, è quella di recuperare la potenza del narrativo, di generare “oggetti” interessanti, pervasivi, coinvolgenti, simbolici.

Alexander Lowen, padre della Bioenergetica, uno degli approcci che noi proponiamo nella nostra Scuola di Formazione, ha scritto un libro intitolato Il piacere. La stimolazione piacevole dei sensi è un motore potente della nostra motivazione e dell’apprendimento. Come si manifesta il piacere nell’ONLIFE? E come possiamo tenerlo vivo?

Due studiosi inglesi, John Potter e Julian Mcdougall, hanno scritto alcune cose interessanti in proposito nel loro testo del 2017 Digital media, Culture and Education: theorising third space literacies. In questo clima di fluidità continua, di accelerazione, di trasformazioni, per imparare occorrono infatti alcune condizioni. Quella di partenza è che da soli non si impara quasi nulla: l’apprendimento è sempre collettivo. La seconda è che si impara se si fanno cose, se si produce qualcosa insieme.

Ma non è sufficiente: la terza condizione è che ci si trovi insieme per qualcosa che dà piacere. Prendiamo l’esempio dello stadio: si creano amicizie clamorose che iniziano e finiscono prima e dopo la partita. Probabilmente non ci si vedrà più, ma in quel momento ci si sente parte di una comunità profonda. In tali situazioni il formale e l’informale perdono quasi di significato, tanto quanto le differenze di status e di ruolo. Se facciamo insieme delle cose che ci piacciono, che io abbia 57 anni e un altro ne abbia 14, che io sia di Milano e l’altro di Agrigento non ha alcun valore.

Oggi non c’è più l’uomo a una dimensione di Herbert Marcuse: tutti siamo tante cose contemporaneamente. È un processo di ibridazione che ritroviamo anche nel virtuale. Nel web le persone si incontrano sulla base di interessi comuni e per condividere saperi pratici.  Quando si riesce a condividere cose che sono interessanti per tutti ognuno le porterà nei propri ambienti e le adatterà. Questo è il piacere nel senso più profondo del termine.

Al digitale agguerrito e turbocapitalista, che pensa a fare miliardi e il suo lavoro lo fa bene, non importa nulla del piacere, interessa solo stimolare continuamente il desiderio, pur sapendo che non si potrà mai appagarlo veramente. Nei gruppi, invece, è esattamente il contrario: esperisco piaceri semplici, condivisi, concreti, che in qualche modo possono essere replicati e adattati. Ciascuno dà il meglio di sé.

Molti adolescenti fanno proprio questo quando videogiocano insieme. E infatti i videogame sono ambienti di apprendimento clamorosi. Quelli fatti bene sono straordinari.

 

La cosa importante è, dunque, creare e curare le condizioni perché il gruppo trovi in maniera creativa e proattiva il proprio modo di funzionare. Questo sarà uno dei fili rossi di Groupability®: fare esperienza diretta e vedere poi quello che accade, mentre accade, per apprendere. Ma ci sono due polarità, che potremmo chiamare passività e proattività. Nella tua esperienza come si manifestano nei due ambienti, reale/virtuale? Qualcuno ritiene che lo schermo tenda a spingere verso la passività. È così? 

Penso che occorra rompere il concetto di schermo come barriera, e trovare piuttosto delle modalità che permettano veramente di essere creativi. Mi capita sempre più spesso di fare esperimenti formativi lavorando con gruppi a diversi livelli, anche nel mondo aziendale, utilizzando la scrittura collettiva sullo schermo, attraverso media diversi. Le persone si stupiscono sempre perché pensano di non essere capaci né di scrivere né di usare i media, e dopo pochi minuti ne sono entusiasti! Sono esperimenti, peraltro, che probabilmente dal vivo non avrebbero funzionato altrettanto. Si tratta di mixare possibilità.

Definiamo da tempo gli schermi, dal cinema alla televisione, come passivizzanti perché si sta ore a guardare qualcosa che è deciso e gestito da altri. Ma è un vero in assoluto. Jean-Luc Godard è un registra famoso per aver fatto nel 1960 un film con Belmondo, Fino all’ultimo respiro, in cui, dopo 12 minuti, il protagonista guarda verso la telecamera e dice: “Se non vi piace il mare, se non mi piace la montagna, se non amate nemmeno la città… andate a farvi fottere!”. Tre quarti degli spettatori si alzavano e se ne andavano. Ma chi rimaneva adorava Belmondo. Ecco, Godard stava già destrutturando il concetto di narrazione canonica: portava lo spettatore a interagire, provocando un sistema abituato alla passività. E questo suscitava grande rabbia o grande entusiasmo.

Negli anni ‘80 l’economia ha coniato un bruttissimo termine che ancora oggi è molto utilizzato: prosumer. Un mix tra consumer e producer. Perché? Se non costringo il cliente a prendere i miei prodotti, ma gli chiedo che cosa vuole che io produca, ci guadagniamo tutti: il cliente mi dice che cosa gli serve e che cosa non funziona e si sente preso in grande considerazione. Mentre io, azienda, vendo ancora di più.

Tornando alla narrazione, potremmo coniare i termini spettattore o spettautore: l’idea è la stessa, e vale sia dietro uno schermo sia in presenza. Ed è proprio quella di recuperare delle modalità di interazione in cui la creatività, le narrazioni, l’espressività e la fantasia diventano ingredienti fondamentali, al di là delle competenze di ciascuno. Non si tratta di saper fare video strabilianti e di alta qualità, quanto di dare vita a uno spirito di co-costruzione di significati attraverso esperienze piacevoli. Ecco che torna la parola “proattività”, ma anche un’altra parola che si riferisce ai videogiochi: il flow, uno stato in cui tutti siamo al meglio delle nostre potenzialità e riusciamo a creare una chimica emotiva e sociale potente.

Facilitare il funzionamento dei gruppi vuol dire creare e curare condizioni perché, nel passaggio intelligente tra ambienti diversi, si riesca a darsi il meglio. E l’esperienza ci dice che è possibile.

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