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Coltiviamo la nostalgia del corpo

Riflessioni sulla “connessione” al tempo del coronavirus

Di Annalisa Chiofalo
allieva del terzo anno del corso triennale di formazione in counseling professionale di Collage

Ciò che sta succedendo in questi mesi sta portando tutti noi a mettere in discussione le nostre abitudini, le nostre certezze, a uscire dalla nostra comfort zone. Com’è per noi affrontare questo cambiamento, così repentino rispetto alle nostre consolidate abitudini?


Stiamo navigando a vista. Il mare è in tempesta, una tempesta che non si sa se e quando si placherà. Nel mio piccolo, mi sento responsabile e portatrice di un messaggio che invita a un atteggiamento lucido e centrato. A una postura di resilienza, radicamento e autodeterminazione. Molto dipende da ognuno di noi e ognuno di noi, nel proprio perimetro d’azione, può fare molto, prendendo il comando del proprio timone e affrontando la tempesta con estrema lucidità e predisposizione al cambiamento.
Un buon capitano non abbandona mai la propria nave, anzi la protegge e, come dice Paulo Coelho, La barca è più sicura nel porto, tuttavia non è per questo che le barche sono state costruite.

E che cosa possiamo farcene di tutto ciò che sta succedendo? Sicuramente recuperare il concetto di connessione, ma in una chiave diversa da come potevamo immaginarcelo fino a prima del Covid19.

Mi viene in mente che proprio un anno fa, in occasione della presenza a Milano di Frederic Lowen (nella foto), figlio di Alexander, il fondatore della Bioenergetica), si è tenuta a Milano un’importante “maratona”, tre giorni dedicati al corpo in tutte le sue sfaccettature e connessioni, organizzata dalla Associazione Collage.

Il clou dell’iniziativa è stato il convegno STAY TUNED – la mediazione corporea nella civiltà degli iperconnessi, dedicato appunto al tema della connessione. Sia il corpo, sia il mondo digitale hanno un bisogno inequivocabile: essere connessi. Il corpo sente il bisogno di sentirsi connesso con la mente e il cuore. E, in un mondo di “iperconnessi” digitali, come possiamo mantenere la connessione con il corpo e i nostri sentimenti, senza rischiare di isolarci? Come sviluppare un’opportunità e mettere in comunicazione questi due mondi apparentemente in conflitto, attivando il senso di responsabilità di ognuno di noi, in particolare di chi svolge una professione nella relazione d’aiuto?

Queste le tematiche sollevate dal convegno. Oggi, a distanza di un anno, le parole che ho sentito in quella occasione mi sembrano quasi profetiche, in particolare quelle di chi tra i relatori ha rivolto la propria attenzione ai giovani, che mi hanno colpito più di altre forse perché hanno fatto risuonare quella parte di me che è più sensibile ai bisogni degli adolescenti.

Lo psicoterapeuta Maurizio Stupiggia aveva posto l’attenzione sul “posto sicuro” che ognuno di noi ha sempre avuto bisogno di avere per sentirsi protetto. Fino a qualche generazione fa, per ogni adolescente il posto sicuro era la cameretta, che rappresentava una sorta di escape room dove racchiudeva il proprio sé segreto e si concedeva di essere se stesso. Adesso, il posto sicuro per gli adolescenti sono diventati i social, che però tanto sicuri non sono e spesso rappresentano un’escape fittizia, anzi una vera e propria dipendenza, portando all’isolamento.

Stupiggia sottolineava quanto l’Amore sia la risorsa per continuare a trovare il contatto emotivo e corporeo, quanto sia importante creare occasioni di incontro non virtuale ma corporeo per gli adolescenti, riportandoli al sentire, alla sensorialità e al valore del gruppo.

A sua volta, il pedagogista Ivano Gamelli aveva raccontato di aver portato la bioenergetica in Bicocca, durante le sue lezioni all’Università, rivoluzionandone il setting. E aveva mostrato un video in cui evidenziava il coraggio e l’impegno di due suoi allievi che, uniti dalla passione per la danza, hanno creato un nuovo metodo che mette in connessione la creatività, il corpo e il digitale, esportandolo all’estero. Per poi concludere il proprio intervento con l’esortazione a mantenere viva la nostalgia di avere un corpo, di metterlo al centro della relazione.

Ed è questa la nostra più grande sfida, ancora più oggi: coltivare quella nostalgia, mettere in comunicazione, partendo da un’apparente conflitto, questi due mondi dis-connessi e ricreare, tra corpo e digitale, un’unica grande connessione: le vibrazioni, quelle che si provano muovendosi, quelle che aveva attivato, sempre un anno fa alla fine della “maratona”, Frederic Lowen con il suo workshop di bioenergetica, unendo tutti i partecipanti in un unico grande abbraccio di vibrazioni e profonda energia.

Come possiamo oggi sostenere questa profonda verità, noi costretti a chiuderci in casa senza poterne uscire, invitati a occuparci della nostra salute ma senza potercene occupare davvero, visto che non è lecito, almeno ufficialmente, dedicarsi al movimento, eppure sappiamo che il nostro corpo ha bisogno di movimento per essere vivo e vitale?

Possiamo oggi trovare un modo per “arrenderci al corpo”, come sosteneva Alexander Lowen? Senza giudizio, senza etichette, semplicemente ascoltando le pulsioni che esso evoca e suggerisce, visto che il corpo sa sempre dove portarci?

“Se non ci sentiamo a casa nel nostro corpo non ci sentiremo mai a casa nel mondo” dice Yuval Harari, storico israeliano autore di 21 domande per il XXI secolo, citato durante il convegno. E allora, in un mondo in cui si è sempre più connessi virtualmente, ma appunto SOLO virtualmente, come mantenere un equilibrio tra connessione corporea e digitale?
La sfida da raccogliere è prenderci del tempo per noi, all’interno delle possibilità che ci sono date. Osserviamoci, connettiamoci al nostro respiro, chiudiamo gli occhi per qualche istante e accogliamo le emozioni che arrivano, senza giudicarle. E attiviamo il corpo nel movimento, trovando ogni modo possibile per farlo, anche da soli, anche nella nostra escape room.

E coltiviamo la relazione. Prendiamoci del tempo, visto che ne abbiamo l’opportunità, per fermarci, rallentare, osservarci e osservare l’altro. Coltiviamo la possibilità di stare nelle relazioni valorizzandone l’importanza e la qualità, approcciandosi all’altro con empatia e apertura, imparando a surfare nelle relazioni. Concedendoci anche qualche caduta, per poi risalire sulla tavola e cavalcare le onde più forti che mai. È arrivato il momento di prendere in mano il timone delle nostre relazioni, perché “non puoi fermare le onde, ma puoi imparare a cavalcarle” (John Kabat-Zinn). E possiamo essere quel timone.

* Le immagini “Sleeping men” e “Desert of Backs” sono del fotografo Carl Warner, www.carlwarner.com

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